martedì 27 dicembre 2011

Giorgio Bocca

Ho avuto pochi maestri nella mia vita. Pochi quelli buoni, pochi anche quelli cattivi. Il fatto è che a 65 anni suonati non so dire se ho imparato più dai primi che dai secondi. Professionalmente i miei maestri sono stati quelli che ho trovato in casa da ragazzo, due giornalisti che avevano in comune solo uno spiccato odio-amore per l'Italia e gli italiani: Giovanni Guareschi e Giorgio Bocca. Mio padre li leggeva e li amava. Io imparai a farlo.
Del primo ho assorbito la saga di Mondo Piccolo, cioè l'Italia che cambiava passando dalla guerra e dalla miseria al primo faticoso benessere, rimanendo però sempre in fondo all'anima, contadina, povera e semplice, umana. Un'Italia che andava a Roma, in URSS e in America, ma guardava al mondo restando aggrappata al natio paesello "che è tanto bello". Del secondo ho invece divorato famelico i grandi reportage dall'Italia del boom, il Paese che scopriva il segreto di: "Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi".
La sua capacità di buttarci in faccia con brutale franchezza, dalle pagine de "Il Giorno" (allora un grande quotidiano di cui l'attuale è solo l'ombra..) chi eravamo e chi stavamo diventando, era straordinaria ed è stata immortalata dal fulminante incipit dedicato a Vigevano: "Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una". Nemmeno Tacito avrebbe saputo fare meglio: una storica città d'arte, famosa per l'architettura della sua splendida piazza progettata dal Bramante nel 1492, veniva ridotta in 15 parole al rango di una squallida fat city.
Guareschi è scomparso nell'estate del '68, Bocca è morto l'altro ieri, a Natale. In questi 40 anni ho scritto umilmente la mia storia di giornalista e oggi so bene quanto devo ai due maestri. A Bocca mi sono ispirato andando in giro per i distretti del made in Italy per scoprirne i segreti del successo nei primi anni 80 e raccontarli ad altri imprenditori. Fino a pochi mesi fa seguendo la sua strada, continuavo a guardare dentro i territori della nostra economia diffusa per scoprire i segreti della loro resistenza nel mondo globale. Oggi ho smesso di seguire questa pista e lascio ad altri l'incarico di raccontare il presente per anticipare il futuro. Lui aveva smesso di raccontare da molto tempo anche se continuava a scrivere o meglio a riscrivere i suoi reportage.
Il libro "Il Provinciale" che considerava una specie di testamento comincia con l'8 settembre e la sua scelta decisiva di salire in montagna con altri ufficiali del suo reparto sbandato di alpini e si conclude venti anni fa con la descrizione di una nevicata fuori dalla sua casa in Val d'Aosta: "Adesso vien giù forte, ce ne saranno già 15 centimetri, esco a pisciare, sommo piacere celtico, guardare il foro giallino nel bianco immacolato della neve, avvolto dal fruscio della neve che cade e sono felice esattamente come lo ero nei lontani anni della neve e del fuoco. Che resta da capire?". Già.

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