CINEMA

Io sto con la sposa (Docu-fiction, Italia/Palestina, 89’) 
di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry. Recensione di Alessandro Amato

Un poeta palestinese siriano e un giornalista italiano incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra, e decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri però, decidono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un'amica palestinese che si travestirà da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che si travestiranno da invitati. Così mascherati, attraverseranno mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Un viaggio carico di emozioni che oltre a raccontare le storie e i sogni dei cinque palestinesi e siriani in fuga e dei loro speciali contrabbandieri, mostra un'Europa sconosciuta. Un'Europa transnazionale, solidale e goliardica che riesce a farsi beffa delle leggi e dei controlli della Fortezza con una mascherata che ha dell'incredibile, ma che altro non è che il racconto in presa diretta di una storia realmente accaduta sulla strada da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013.
Difficile dedicarsi a un commento tecnico di fronte a un’opera che nasce come testimonianza di un’avventura reale nonché caratterizzata da una certa dose di illegalità.
Perché nel cinema (sul piano non solo estetico) l’illecito sta altrove. Questo ce lo aveva già dimostrato il tedesco Werner Herzog in almeno due occasioni: la realizzazione di “Fitzcarraldo” nel 1982 nella foresta amazzonica grazie a dei permessi locali falsificati, e l’incontro pubblico tenuto a Vienna dieci anni più tardi con Philippe Petit, il funambolo che camminò su una corda tra le Twin Towers spacciandosi per un operaio a lavoro. Insomma, storie di vita autentica. Vita etica se non morale. Ma in fondo, cosa importa? È pur sempre la lotta dell’uomo contro i proprio limiti. Peggio è quando l’ipocrisia ci impedisce di esprimere il nostro bisogno di lottare. Conta il rispetto.
Tornando a “Io sto con la sposa”, il rispetto per le autorità e la convivenza civile è indubbio. Ma ancora più indubbio è il rispetto per la dignità umana. Per il desiderio di realizzare quei sogni che dovrebbero essere alla portata di tutti e non lo sono mai davvero. E non lo sono per il semplice fatto che è spesso una questione di fortuna. Nasco e cresco nell’ambiente che sarà il mio futuro.. Possiamo partire, fuggire, nasconderci. Ma tendiamo sempre a tornare. È nella nostra natura. Infatti, alcuni dei personaggi (anche se chiamarli così non è proprio corretto) del film tornano nel luogo da cui sono venuti o in quello dai quali erano già passati. Chi per scelta, chi per obbligo. Lo fanno, però, col cuore più leggero: ce l’hanno fatta e possono sempre provare di nuovo.
Un film notevole e appassionante, in cui si ride e ci si commuove.
Dalla struttura lineare, il ritmo sicuro e l’impegno costante.
Che trova la sua forza non tanto nei dialoghi o nei racconti quanto nei momenti di riposo e di svago dal viaggio, in quegli spazi condivisi in cui si prende coscienza del comune (incerto) destino.

Fuori concorso nella sezione Orizzonti di Venezia 2014. Presentato anche al Milano Film Festival. 



La buca di Daniele Ciprì (Commedia, Italia, 90 min.)

Armando è un povero diavolo che ha scontato incolpevole una pena lunga trent'anni. Uscito di prigione cerca conforto nella madre, che in seguito a un ictus non lo riconosce più, e nella sorella, che lo considera adesso persona non grata. Sconsolato si accompagna con un cane che diventa causa e (s)ventura di incontro con Oscar, un avvocato misantropo che vede in Armando l'opportunità di arricchirsi. 
Circuito e poi accolto a casa sua, Oscar lo convince a intentare una causa milionaria contro la Stato per risarcire l'ingiustizia subita. Persuaso a riscattare finalmente gli anni perduti, Armando ricostruisce le dinamiche della rapina a mano armata e una vita con Carmen, la barista gentile della porta accanto.

Noto soprattutto per la proficua collaborazione con Franco Maresco dai tempi di “Cinico TV”, Daniele Ciprì si era già provato nella regia in solitaria di “È stato il figlio” con risultati eccezionali. In questa nuova sfida, il nostro non viene meno alle aspettative sul piano tecnico ma purtroppo si lascia andare su quello della scrittura. C’è sempre quel tono grottesco che ha fatto la fortuna dell’esordio, quelle maschere senza gloria più umane dell’umano. C’è Castellitto dove avevamo lasciato Servillo. C’è Papaleo che ancora una volta «ci ha fregati tutti» (come fu egli stesso a dire riguardo la propria fortuna nel campo dello spettacolo). C’è Valeria Bruni Tedeschi che alcuni definirebbero una cagna della recitazione, fatto sta che te ne innamori ogni volta. 
La favola scanzonata di Oscar e Armando contro tutti funziona perché si ride molto e si riflette come di fronte a uno specchio. L’italica propensione alla furbizia è innegabile e appartiene al quotidiano: le vecchie che saltano la coda alle poste, i finti ciechi, gli insegnanti con la doppia pensione ecc. Questo però soltanto nei primi 60 minuti. L’ultima mezz’ora è invece un’unica involuzione: l’effetto dejà vu dello scioglimento, le musiche melodrammatiche, gli sketch quasi televisivi. All’ultimo qualcosa si rompe nel giocattolo di Ciprì ed è proprio un peccato. Si poteva osare di più.


La nostra terra di Giulio Manfredonia (commedia, Italia, 100 min.)

Nel sud pugliese, il proprietario di un podere e di diversi ettari di terra, Nicola Sansone, viene arrestato e le sue proprietà prima confiscate e poi assegnate a una cooperativa locale incapace di gestirle per negligenza e impreparazione. 


Dal Nord ad aiutarli viene mandato Filippo, stratega dell'associazionismo da antimafia, uomo da scrivania, esperto di leggi e regolamenti, ma inesperto quando si tratta di sporcarsi le mani con la realtà. Sul posto Filippo trova il Sud con tutte le sue contraddizioni, fascinazioni, collusioni, non detti, speranze, creatività e via dicendo. Un coacervo di luoghi comuni resi plastici dalla missione che si è dato: far funzionale la cooperativa.

Mostrato lunedì corso in anteprima nazionale in una quarantina di sale e preceduto da un video-dibattito in diretta cui ha partecipato anche Don Luigi Ciotti, il film di Manfredonia ha già convinto sia critica che pubblico. Un progetto giusto e senza precedenti per quanto riguarda il tema trattato. Inoltre, una commedia che funziona, ben scritta e nel complesso ben recitata: in particolare, si segnalano il fattore Sergio Rubini e il boss Tommaso Ragno (classe 1967, attore teatrale straordinario), figure solo sulla carta macchiettistiche in grado di catalizzare l’attenzione dispersa dall’esasperante Stefano Accorsi nel ruolo di protagonista. 
L’autoironia dell’esperta Iaia Forte, il carisma di Maria Rosaria Russo e l’atmosfera d’insieme fanno il resto. A dire di Don Ciotti, ancora troppo poco si sa dell’attività antimafia al di fuori di quell’ambiente ed è vero. Un film come questo magari non vincerà dei premi ma di certo non verrà dimenticato facilmente. Infine, l’intuito sempre più acuto di istituzioni come la Film Commission pugliese nonché gli sforzi produttivi di compagnie private come Unipol rendono questo genere di operazione ancora più significativo.   


Aimer, boire et chanter di Alain Resnais (commedia, Francia, 108 min.)

Durante le prove di una commedia teatrale, una compagnia di attori dilettanti riceve la notizia che all’amico George mancano pochi mesi di vita a causa di una grave malattia. Così essi lo invitano a partecipare alla pièce e si attivano per supportarlo nel viaggio verso l’ignoto.
Lo scorso 1 marzo ci ha lasciati Alain Resnais, figura mitica del cinema francese – autore di numerosi capolavori quali Notte e nebbia (1955), Hiroshima mon amour (1959) e Smoking/No smoking (1993) – e tra gli ispiratore teorici del movimento Nouvelle Vague, pur non aderendovi mai ufficialmente. Il film in questione, tratto da un testo del drammaturgo britannico Alan Aychbourn come già in precedenza, è appunto la sua ultima fatica. Un’opera di grande eleganza e lucidità. 
Ogni cosa si svolge in esterni ricostruiti in studio (due soli gli interni, di cui uno attraverso il vetro di una finestra), perché si renda l’idea di una realtà mistificata e mistificatrice qual è quella in cui vivono le tre coppie protagoniste. Non c’è cattiveria, tuttavia, ma quasi pietosa partecipazione. Spesso, infatti, i personaggi appaiono come spettri in catene, schiavi dei propri vizi: il fedifrago Jack e le sue telefonate notturne, la moglie Tamara e la sua bellezza sfiorita, il tenero Colin e i battibecchi con Kathryn, infine Monica e il suo buffo agricoltore. In tutto ciò, l’ombra di George e le sue macchinazioni reali o immaginarie. Ricordi di amori passati, frustrazioni, rimpianti, sogni e paure. Vien da pensare alla commedia noir Otto donne e un mistero (2002) di François Ozon, tratto dallo splendido lavoro di Robert Thomas. Nessuna retorica, nessuno psicologismo gratuito. Resnais ci regala un saggio di regia d’attori e chiude l’avventura in grande stile. Completo.

Premiato al 64esimo Festival Internazionale del Film di Berlino e presentato nella sezione “The Outsiders” al 19esimo Milano Film Festival.



Arance e martello di Diego Bianchi (commedia, Italia, 101 min.)

Estate 2011. Un gruppo di attivisti della sezione del PD di via Orvieto, nel quartiere San Giovanni a Roma, vuole contribuire alla raccolta di dieci milioni di firme per far dimettere Silvio Berlusconi, e piazza il suo banchetto accanto al banco del pesce del mercato rionale. Quando la radio del quartiere dà la notizia che l'amministrazione locale vuole chiudere il mercato, i commercianti si rivolgono alla sezione perché appoggi la loro protesta. Ma arrivare ad una sinergia non è semplice: servono le consultazioni, il voto, il benestare del partito. La tensione monta, e tutti litigano per difendere i propri interessi e i propri punti di vista.
«Tra compagni ci si dà del tu!», afferma Trieste, segretaria di sezione.
«Veramente, tra compagni ci si chiamava per cognome», commenta Armando, il marito.

Forse dovremmo riflettere su quanto poco lontano si possa vedere nel futuro se tanto poco si è concordi sul passato. Ed ecco riassunto in due battute Arance e martello, il film scritto diretto e interpretato da Diego Bianchi, alias Zoro. Molti lo ricorderanno come autore e conduttore della trasmissione televisiva Gazebo e come blogger. Ora, il 44enne comico romano esordisce al cinema con una commedia a dir poco scanzonata, seppur non priva di ambizioni. 
Un film votato alla denuncia di quello che da anni è certamente il problema a monte del centrosinistra (soltanto?) e dell’Italia intera: una tendenza disgregativa causata dal completo degrado ideologico. Inoltre, sulla traccia di Fa’ la cosa giusta (1989) dell’afroamericano Spike Lee – ambientato a Brooklyn e qui ripetutamente citato e omaggiato –, il regista esordiente costruisce una narrazione verosimile quanto satirica, in perfetto stile Zoro. 
Purtroppo non mancano i difetti: numerose scelte visive, in particolare, sono indubbiamente influenzate e appesantite da una forma di compulsiva auto-rappresentazione – si veda l’uso della camera amatoriale – propria tutt’al più del web. Per il resto, un lavoro arguto e creativo; mai davvero retorico e spesso persino coraggioso. Attori tutti bravi (spicca Francesco Acquaroli, interprete teatrale classe ‘62, nel ruolo di Armando). Ragguardevoli le scelte musicali. Presentato Fuori Concorso alla 71esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Nessun commento: