Venerdì sera al Metropolis,
dopo l'inaugurazione della mia mostra fotografica "Italiani in
Bianco e nero 1974/1984" e il dibattito sul fotogiornalismo di
ieri e di oggi che ne è seguito, hanno potuto ammirare in Sala
Pasolini lo straordinario film di John Maloof e Charlie Siskel "Alla
ricerca di Vivian Maier" da pochi mesi uscito in Italia, che
racconta la storia del ritrovamento fortuito dell'opera monumentale
(centinaia di migliaia di fotografie mai viste da nessuno) della più
grande fotoreporter sconosciuta di tutti i tempi e della loro
scoperta grazie ai social network che ne hanno divulgato le immagini
al pubblico di tutto il mondo.
Vivian Dorothea Maier (New York, 1
febbraio 1926 – 21 aprile 2009) dopo un periodo
di vita in Francia, tornata negli Stati Uniti, lavorò per circa
quaranta anni come bambinaia a Chicago. Durante quegli anni ha
scattato oltre 150.000 fotografie, principalmente di persone e
architettura urbana, nelle città di New York, Chicago, e Los
Angeles. Migliaia di foto scattate per strada con una Rolleiflex, una
fotocamera tedesca che usava rullini di formato quadrato, 6x6 cm.,
da lei scelta forse perché consentiva grazie al mirino (che si usava
guardandolo dall'alto) di fotografare senza portare la macchina
all'altezza dell'occhio, in modo che il soggetto fotografato non si
accorgesse di esserlo.
Le fotografie sono rimaste sconosciute,
insieme alla fotografa, fino a quando, dopo la sua morte, le sue
scatole di averi sono state acquistate all'asta per 380 dollari da un
collezionista trentenne di Chicago, John Maloof. Di fronte alla
scoperta delle foto, molte delle quali mai sviluppate, il giovane
che non sapeva niente di fotografia, incredulo, ha cominciato a
postarle online subito dopo l'acquisto. Il successo di pubblico ha
innescato una serie di mostre inizialmente negli Stati Uniti e poi in
tutto il pianeta.
Ma mentre postava su internet le
fotografie scoperte, Maloof, cercava anche di scoprire chi era e che
vita aveva fatto questa sconosciuta artista di cui il motore di
ricerca di google dava risposte zero. Rovistando tra l'enorme massa
di materiali contenuta nelle scatole appartenute a Vivian trovò
migliaia di ricevute postali, biglietti e qualche rara lettera
grazie alle quali riuscì a ricostruire il parte la sua vita e
rintracciare molti dei bambini che aveva allevato e delle loro
famiglie dalle quali ricavò preziose testimonianze sulla sua vita.
"Parlando con chi l’aveva conosciuta abbiamo capito che Vivian era una donna avventurosa, uno spirito libero – dice nel film Maloof -. Nel suo lavoro di tata portava i bambini nelle zone povere dalla città, a vedere i recinti di bestiame da dove arrivava il cibo che mangiavano. Mostrava loro cose crude perché erano dei privilegiati. Ma ci sono stati raccontati episodi che rivelano un carattere problematico al limite del disagio mentale: pare che Vivian picchiasse i bimbi e fosse terrorizzata dagli uomini. Insomma per molti il suo carattere nascondeva molte ombre che lei alimentava comportandosi in modo misterioso, cambiando identità e nascondendo il suo lavoro di fotografa in decine di valigie e bauli che portava sempre con sè da una casa all'altra. Ma non era una pazza, credo avesse coscienza di essere una grande artista, che a causa dei suoi problemi personali non è riuscita a esprimersi mostrando al mondo il suo lavoro".
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