Dove vanno a finire i soldi che lo
Stato dà ai giornali? Di sicuro non servono a pagare i giornalisti.
Anzi. Perché in Italia tranne rare eccezioni fare il giornalista
significa rassegnarsi ad una vita da precario.
Se c'è un microcosmo lavorativo che
riassume tutti i difetti del sistema Italia è quello del
giornalismo. E allora, dove finisce il finanziamento pubblico? Nei
mega stipendi a direttori, capiredattori, amministratori delegati e a
tutte quelle penne illustri (?) che si ergono a guide morali che da
anni non portano un straccio di notizia, ma commentano, avvertono,
monitano.
Vi hanno detto che la libertà di
stampa è minacciata dalla mafia, da Berlusconi, dalle mille leggi
bavaglio. Minchiate. La libertà di stampa è minacciata dalla
miseria in cui vivono e lavorano migliaia di giornalisti sfruttati:
dagli editori, dai direttori e, infine, dai loro stessi colleghi
assunti con contratto a tempo indeterminato che quando scioperano,
protestano, denunciano è solo per i loro privilegi di giornalisti
professionisti e assunti mentre gli altri muoiono di fame. Facciamo
un esempio. Un articolo di cronaca, secondo una ricerca compiuta
dall'Ordine dei giornalisti pubblicata nel 2011, viene pagato anche 5
euro lordi a 60-90 giorni dalla pubblicazione. Sono i numeri della
vergogna, la cifra, vera, della censura.
Ecco cosa dicono: La Repubblica a fronte di 16.186.244,00* euro di contributi dello Stato all'editoria elargisce un compenso che varia tra i 30 e i 50 euro lordi a pezzo. Il Messaggero, che riceve 1.449.995,00 euro di contributi pubblici, riconosce 9 euro di compenso per le brevi, 18 euro le notizie medie e 27 euro le aperture. Lordi, ovviamente. Il Sole 24 Ore: 19.222.767,00 euro di contributi pubblici e 0,90 euro a riga, con cessione dei diritti d'autore. Libero: 5.451.451 di finanziamenti pubblici e 18 euro lordi per un'apertura. Il Nuovo Corriere di Firenze (chiuso nel maggio 2012) riceve 2.530.638,81 euro di contributi pubblici e paga a forfait tra i 50 e i 100 euro al mese, il Giornale di Sicilia a fronte di un finanziamento di quasi 500 mila euro (anno 2006) paga 3,10 euro. Provate a immaginare quanti articoli servono per arrivare ad uno stipendio decente. Provate ad immaginare quale sarà la pensione di chi scrive con un simile onorario (?). Perché questi giornalisti, se iscritti all'ordine- sennò sono abusivi ed è un reato penale - i contributi devono versarli da sé, nella misura del 10 per cento del compenso netto più un due per cento di quello lordo. Che vanno a confluire nella "gestione separata" (mai nome fu più azzeccato) dell'ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi.
Ecco cosa dicono: La Repubblica a fronte di 16.186.244,00* euro di contributi dello Stato all'editoria elargisce un compenso che varia tra i 30 e i 50 euro lordi a pezzo. Il Messaggero, che riceve 1.449.995,00 euro di contributi pubblici, riconosce 9 euro di compenso per le brevi, 18 euro le notizie medie e 27 euro le aperture. Lordi, ovviamente. Il Sole 24 Ore: 19.222.767,00 euro di contributi pubblici e 0,90 euro a riga, con cessione dei diritti d'autore. Libero: 5.451.451 di finanziamenti pubblici e 18 euro lordi per un'apertura. Il Nuovo Corriere di Firenze (chiuso nel maggio 2012) riceve 2.530.638,81 euro di contributi pubblici e paga a forfait tra i 50 e i 100 euro al mese, il Giornale di Sicilia a fronte di un finanziamento di quasi 500 mila euro (anno 2006) paga 3,10 euro. Provate a immaginare quanti articoli servono per arrivare ad uno stipendio decente. Provate ad immaginare quale sarà la pensione di chi scrive con un simile onorario (?). Perché questi giornalisti, se iscritti all'ordine- sennò sono abusivi ed è un reato penale - i contributi devono versarli da sé, nella misura del 10 per cento del compenso netto più un due per cento di quello lordo. Che vanno a confluire nella "gestione separata" (mai nome fu più azzeccato) dell'ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi.
Una "serie B" della
cassa principale che, invece, prevede pensioni, disoccupazione, case
in affitto, mutui ipotecari, prestiti e assicurazione infortuni. Ma
questa vale solo per quelli "bravi", quelli a cui viene
applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico
che, solo nel 2011, dopo 6 anni, è stato rinnovato. Insomma quelli
assunti. Che ovviamente sono una piccola minoranza. Ma, attenzione,
questo solo per quanto concerne la parte economica. Perché il
contratto collettivo non disciplina solo il trattamento economico ma
regola a tutti gli effetti i rapporti fra datore di lavoro (editore)
e lavoratore (giornalista). Fissa, insomma, diritti e doveri. Ma,
ancora una volta, questo vale solo per chi il contratto ce l'ha e,
quindi, tutti gli altri vivono nel Far West, perché la loro
posizione non è disciplinata da nulla. E si tratta della stragrande
maggioranza dei giornalisti della carta stampata - da Repubblica fino
al più piccolo foglio di provincia: precari, sottopagati, sfruttati,
senza copertura legale, senza ferie, senza nulla.
È questa
moltitudine, oltre il 70% degli iscritti all'Ordine, che permette ai
giornali cartacei e on-line, alle agenzie di stampa di produrre
notizie 24 ore al giorno. Senza di loro le pagine bianche sarebbero
molte di più di quelle scritte. La carta stampata riceve centinaia
di milioni di euro di contributi dallo Stato ogni anno, ma lo Stato
non chiede agli editori in cambio di garantire compensi minimi e
tutele contrattuali ai collaboratori. Poi arriva la Fornero, ministro
al Lavoro e di fronte alla più elementare delle proposte di legge
sull'equo compenso ai giornalisti precari dice: "Non mi sembra
opportuno". Della serie siete precari, non siete figli di papà
(giornalista), e allora morite. E qualcuno c'è anche morto, stufo di
subire. Come Pierpaolo Faggiano, collaboratore della Gazzetta del
Mezzogiorno, che nel giugno 2011 si è tolto la vita: non sopportava
più, a quarantuno anni, di vivere da precario.
Chiara Baldi, da giornalista precaria
ha scritto una tesi sul precariato: "i giornalisti sono "i
più precari tra i precari – scrive Baldi - perché lo
stipendio da fame li costringe anche a rinunciare ai principi
deontologici a cui invece dovrebbero attenersi. Una buona
informazione è possibile solo quando chi la fornisce non deve
sottostare al ricatto di uno stipendio misero. Più è basso il
guadagno del giornalista e più sarà alta la sua 'voglia' di produrre senza professionalità, non tanto per un desiderio malato
di non essere professionale, quanto per una necessità: quella di
guadagnare".
Il potere, di qualsiasi colore, non ama i
giornalisti e in Italia per disinnescare il problema è stato
consentito che diventare giornalisti, essere assunti, sia un
privilegio di pochi, così che la stampa diventi il cagnolino del
regime e non il guardiano. Assumere il figlio del giornalista è come
candidare il Trota, sangue vecchio sostituisce altro sangue vecchio.
Altro che bavaglio. Provate voi ad essere liberi a 5 euro a
pezzo (lordi).
1 commento:
Solo una domanda:ma i freelances sono obbligati a fare questo lavoro,oppure per loro è una missione,se è una missione devono essere disposti a qualsiasi sacrificio,se è una passione la facciano nel tempo libero e campino di un'altra professione come succede per tanti professionisti,che lo fanno per prestigio e per valorizzare la propria attività.
Quello che ho sempre ritenuto insopportabile è il finaziamento della stampa.Perchè il contribuente deve pagare per esempio il Sole 24 ore che mi sembra essere l'organo di confindustria,oppure un'altro quotidiano citato che è indegno del titolo di giornale,se ha un suo pubblico non ne discuto la pubblicazione però se la faccia pagare da lui non da me.
Per favore non tiratemi in ballo la libertà di stampa,ho riflettuto abbastanza ma nessuna autoobiezione mi ha convinto.
pierino favrin
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