“Ragù di capra” di Gianfrancesco Turano è un libro che ho amato al primo sguardo, fin dal titolo. Il ragù di capra è il cibo rituale della ‘ndrangheta jonica. Un piatto, primordiale, ovviamente buonissimo se accompagnato alla fileja, l’antica pasta casalinga calabrese.
L’ho mangiato in Aspromonte a metà degli anni 80 con un gruppo di amici tra cui c'era un'intelligente ‘ndranghetista dagli occhi azzurri dal nome sorprendente di un dio germanico: “Audino”. Peccato che solo pochi mesi dopo, quello che io avevo giudicato un giovane brillante e potenzialmente in grado di transitare dal pizzo all’impresa legale in una sola generazione, sia saltato per aria con la sua auto, ucciso da una primordiale bomba in pieno centro a Reggio. Era in corso la guerra tra le famiglie Imerti e De Stefano: 600 morti in 6 anni.
La Calabria per me è ancora un luogo del cuore, una terra con la quale ho avuto quarant’anni di rapporti labili e quasi sempre deludenti, ai quali resto però molto legato sentimentalmente. Ma non sono calabrese e come dimostra bene l’aneddoto che ho raccontato all’inizio, la mia opinione su questa realtà non vale molto.
Il romanzo, scritto da un calabrese "riggitano" emigrato a Milano trent’anni fa, oggi giornalista economico di un famoso settimanale, è bellissimo e divertente, scritto con un linguaggio perfetto, pieno di echi e di immagini. Racconta di più sulla ‘ndrangheta di tanti saggi, inchieste giornalistiche e giudiziarie, studi e ricerche sociologiche.
Questa in breve la storia. Stefano Airaghi, trafficone milanese di periferia, sempre a corto di soldi, ha avuto un’idea semplice: truffare la compagnia di assicurazione, far finta di annegare affondando il proprio yacht nello Jonio e aspettare il consistente premio restando nascosto in un paesino desolato della Locride. Sammy Morabito, suo socio a Milano e nipote del capobastone locale, gli fornisce le credenziali e l’appoggio logistico. Tutto andrebbe per il meglio se, mentre attende la dichiarazione di morte presunta, il milanese annoiato non cominciasse a frequentare un gruppo di giovani delinquentelli della zona; dei perdigiorno emarginati dagli n’dranghetisti veri perché stupidi e inaffidabili.
Divenuto il capo del gruppetto, Airaghi, decide di entrare nel giro grosso con una ‘ndrina fondata e guidata da lui. Prima mette in piedi una “finanziaria” che è la solita catena di Sant’Antonio con la quale comincia a farsi dare soldi dai commercianti locali, poi si mette in testa di fregare, proprio al capobastone del Paese che lo nasconde, un carico di armi russe sepolte in mare.
Può un milanese, spavaldo e incosciente, sfidare una comunità criminale sorretta da ferree regole come quella di cui è ospite? Potere è volere, insegna la scuola meneghina alla quale è cresciuto Airaghi. Riuscirci però è un altro paio di maniche. Il finale è illuminante.
Ragù di capra
Gianfrancesco Turano
Dario Flaccovio Editore
232 pag. 13 euro
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