lunedì 3 maggio 2010

Walter Tobagi, il senso profondo di una professione

Si è tenuta oggi nell'auditorium della Regione Lombardia, la "Giornata nazionale della Memoria" dei giornalisti uccisi per mafie e terrorismo. La manifestazione si è svolta a Milano per onorare in particolare Walter Tobagi a trent'anni dal suo assassinio. Riporto qui l'intervento di Giuseppe Baiocchi, tra i fondatori con Walter Tobagi, dell'associazione Stampa Democratica. Da fotoreporter ho avuto la ventura di conoscere sul campo Walter Tobagi nella primavera del 1979. Facemmo conoscenza all'alba del 10 aprile, nel bar della stazione ferroviaria di Padova, gremito di giornalisti, dove fummo presentati dal collega Mauro Vallinotto. Ci eravamo recati tutti in quella che allora era definita la città degli "autonomi" perché il giorno prima avevamo avuto notizia che era scattata "l'operazione 7 aprile" con l'arresto di decine di sospetti brigatisti tra cui il professor Toni Negri che insegnava in quella Università. In seguito di incontrammo in altre occasioni e ci parlammo l'ultima volta a margine di una drammatica assemblea sindacale a Torino dopo il licenziamento dei 61 operai Fiat, sospetti terroristi, avvenuto nell'autunno 1979. Pochi mesi dopo Tobagi venne assassinato. Tra i terroristi che lo uccisero c'erano Marco Barbone e Paolo Morandini, figli di noti giornalisti e dirigenti editoriali, colleghi della loro vittima.
Benedetta, figlia di Walter, che aveva solo tre anni quando il padre venne colpito a morte sotto casa, è oggi giornalista al Corriere della Sera e ha ripercorso la sua esperienza in un libro: "Come mi batte forte il tuo cuore" (Einaudi - 2009).

L’INSEGNAMENTO DI WALTER TOBAGI
I colleghi hanno voluto affidare a me, che in gioventù ho condiviso tutta l’esperienza di Walter (gli studi storici, l’assistentato universitario l’impegno nella professione al “Corriere della Sera” e nel sindacato) la memoria anche spirituale di questa figura, stroncata a 33 anni dal terrorismo brigatista. Sul piano intellettuale, Walter era paradossalmente più storico che giornalista: e in quegli anni cupi e convulsi si ritrovò a fare, con i suoi articoli e le sue interpretazioni, soprattutto lo “storico del presente”: d’altronde aveva intuito da giovanissimo nel suo primo libro uscito nel 1970 (“Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti”) che quel movimento del Sessantotto, anziché all’avvenire si era ben presto rivolto al passato. Ed aveva finito per costituire la tragica rivincita dei “nonni”, massimalisti e rivoluzionari, contro i “padri”, costituzionali e democratici .

Di qui, in quella immane tragedia della sinistra culturale e politica, il piano inclinato irrefrenabile della violenza, prima verbale e poi fisica e quindi armata. Che aveva trovato, secondo lui, il suo inizio e il suo “sdoganamento” intellettuale in quel vergognoso manifesto di Lotta Continua contro Calabresi, che trova ancora oggi, purtroppo, firmatari non pentiti e che allora rese una parte del giornalismo italiano succube, se non complice, del compiacimento della violenza. Da storico e attento tessitore di informazione tra le radici del passato e le contraddizioni del presente, credo che Walter avrebbe condiviso lo spirito di questa giornata, sapendo che il ricordo, lo sguardo retrospettivo, la riflessione non retorica diventano, per loro natura, la “memoria del futuro”.
Ma dove sta la “memoria del futuro” nell’onorare i colleghi caduti ? Mi pare proprio che stia nel riflettere sul senso profondo della nostra professione, del suo ruolo pubblico e insostituibile, della sua delicatissima responsabilità. E su questo, attraverso i suoi scritti i suoi libri, i suoi saggi storici e il suo impegno civile e sindacale, Walter Tobagi ci “parla ancora”, con elementi di sorprendente e straordinaria attualità. Sono passati ormai trent’anni, molto è rimasto sotto la polvere del tempo, e il nostro mestiere è proprio completamente cambiato, e non solo per i computer e internet. E tante volte ci è capitato di chiederci che cosa avrebbe pensato Tobagi nella interpretazione di queste trasformazioni tumultuose e troppo spesso sregolate e degli interrogativi a volte inquietanti che finivano per aprire.
Eppure restava e resta comunque attuale il significato ultimo del mestiere di giornalista: quello cioè di tramite intelligente, di attento e onesto interprete (quasi un traduttore) tra i cittadini e la realtà. A condizione di conservare e coltivare quella che proprio Walter considerava la dote indispensabile della vocazione ad informare, ovvero lo “stupore”. E cioè la libertà interiore di lasciarsi sorprendere dalla realtà, di non sovrapporre pregiudizi, di avere l’orecchio attento e lo sguardo lungo per coglierne i risvolti più impensati, senza indulgere alle mode o a un “pensiero unico” dominante. E di avere la libertà e l’onestà intellettuale di descriverla tutta, così come la si è incontrata. Compiendo così quella preziosa funzione civile, indispensabile in società democratiche, di essere il raccordo cristallino tra la realtà e la pubblica opinione, in modo che il lettore, il cittadino si possa formare, chiaramente informato, il suo libero e maturo convincimento. E Tobagi condensava in quattro parole il senso più vero della professione : “voler capire e poter spiegare”…Che comportava per sé un di più di studio, approfondimento, verifica e rigore professionale, ma insieme la difesa anche testarda dell’autonomia del giornalista in un clima in cui già allora si manifestavano tentativi di chiusure e vicende poco chiare con un peso eccessivo della politica e dei poteri economico-finanziari, magari non trasparenti.
Di qui l’impegno civile e pubblico attraverso soprattutto la strada del sindacato. Walter era un esperto e cultore della storia dei sindacati. E nella temperie di quegli anni difficili ne era insieme l’osservatore più critico, ma anche il sostenitore più intelligente. Cogliendo nel sindacato l’anima naturalmente riformista, che nella fatica del gradualismo, del “passo dopo passo” costruiva il reale progresso dei lavoratori ben più, scriveva, delle “parole tonitruanti” e degli inutili massimalismi. E anche nel sindacato dei giornalisti, che appariva malato di conformismo, portò il coraggio di una posizione riformista, fondando la corrente di “Stampa Democratica” e con il vasto consenso dei colleghi guidando fino alla morte l’Associazione Lombarda.
E in questo ruolo cercando di costruire un fronte di intelligenza comune con quanti erano davvero impegnati a migliorare la vita di un Paese incupito e lacerato dall’onda sanguinosa del terrorismo. Ricordo gli incontri con Emilio Alessandrini, forse la mente allora più acuta della Procura di Milano (e non a caso stroncato poco prima di Walter dallo stesso brigatismo rosso), incontri nei quali si sentiva drammaticamente comune la necessità di tutelare “l’autonomia e l’indipendenza”. Non tanto di categorie o di corporazioni, quanto del singolo operatore e della libertà della sua coscienza perché, magistrato o giornalista, potesse assicurare a una democrazia in pericolo quei servizi decisivi della giustizia e dell’informazione indispensabili alla pacifica convivenza civile. Molto ci sarebbe ancora da dire, perché la lezione umana e professionale di Tobagi continua a parlare, (se la si vuol ascoltare). In una occasione come questa, in omaggio ai colleghi caduti e in una vicinanza non retorica ai colleghi minacciati e in pericolo, forse ha un senso concludere con un accenno ai rischi e alla loro consapevolezza. A me, che quasi ogni sera lo accompagnavo a casa dal Corriere, cambiando spesso gli orari e i percorsi, Tobagi confidava, oltre le sue umanissime paure, la sua profonda etica della responsabilità nella piena coscienza di trovarsi nel mirino. “Non mi perdoneranno - mi diceva - di aver rotto il conformismo e l’unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire; e sia nell’impegno della costruzione di un sindacato moderno e adeguato ai tempi, che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e di trovare il libero consenso di molti colleghi… E poi succeda quello che deve succedere….”. E anche così restiamo, credo, nella “memoria del futuro”…
Giuseppe Baiocchi

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