domenica 29 dicembre 2013

Moni Ovadia: l'ebreo stante

Moni (Salomone) Ovadia è un mio coetaneo e un caro amico. Ci conosciamo da quasi 40 anni, abbiamo in comune un fratello (il mio) e tanti, tantissimi amici, donne e uomini (anche qualche rabbino), oltre a discussioni, passioni politiche, confidenze intime. Insomma, ci vogliamo bene.
Tramite lui ho incontrato e conosciuto (poco) la immensa ricchezza della cultura ebraica europea, la cultura babelica dell'esodo e dell'esilio che ha prodotto una musica, un teatro e una letteratura straordinarie. Una cultura che seppure sfiorata ha arricchito la mia anima e ha fatto di me quello che sono. L'ebraismo è stato, infatti, parte della mia vita quando dal 1980 al 1986 ho avuto la ventura di vivere in una famiglia di ebrei italiani nella quale a un certo punto avrei voluto integrarmi tanta era la forza di attrazione di questa antica radice. 
Ieri sera è stato perciò un grande piacere portare mia figlia Cristina a vederlo recitare, cantare e ballare sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano, da dove iniziò 25 anni fa la sua avventura teatrale. Lo spettacolo "Cabaret Yiddish" (se non lo avete ancora visto affrettatevi, è in replica fino al 31 dicembre) è lo stesso che allora sull'onda di un enorme successo portò Moni alla fama nazionale e internazionale.
Un'immersione nella lingua, nella musica e nella cultura Yiddish, in quell'inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno per raccontare la condizione universale dell' ewige jude, l'eterno ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque.
Nelle due parole del titolo si racchiude tutta la magia irripetibile dello spettacolo: è un cabaret in senso stretto, alterna brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni, ma "sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe" perché dedicato a quella parte di cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.
E ho gustato ancora una volta le battute, le poesie, le canzoni e la musica struggente, care al mio orecchio. Barzellette soprattutto, che sono molto rivelatrici dell'anima ebraica, perché in realtà sono, come sottolinea Moni, barzellette antisemite raccontate dagli ebrei. 
I quali sono gli unici al mondo a ridere, non degli altri, ma di se stessi, dei loro difetti e delle loro paranoie, dei loro complessi e del loro rapporto con i goyim, cioè gli altri popoli presso i quali trascorrono parte del loro faticoso viaggio di esilio. 
E, naturalmente, del loro esclusivo rapporto con Dio. Un rapporto difficile che giustifica ampiamente le barzellette, perché il popolo che un giorno ha incontrato l'Onnipotente, Creatore e Signore del Cielo e della Terra, e ha osato fare un patto scritto con lui, deve per forza prendersi in giro e ridere di se stesso se no rischia di montarsi troppo la testa.

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