martedì 26 giugno 2012

Chi non inquina non piglia pesci

Non bisogna mai tornare da vecchi dove si è stati felici in gioventù. La delusione e la malinconia sono inevitabili. Oggi l'ho sperimentato sulla mia pelle e mentre ne scrivo sono ancora depresso.
Quarant'anni fa in estate andavo ogni tanto a pescare con la lenza sull'Adda nel tratto compreso tra Arluno e Brivio, a valle di Lecco. Un luogo bellissimo, acque limpide e veloci, canneti, rive facili da raggiungere, il vento leggero che increspa le onde del grande fiume verde azzurro, nelle cui acque si rispecchiano le cime dei monti "sorgenti".
Non ci tornavo dagli anni 70 e nella mente mi restava un ricordo di bellezza e di piacere. Non sono un pescatore, nel senso che pescare per me è un pretesto per restare in silenzio, ascoltando i rumori della natura, il canto degli uccelli acquatici, folaghe, anatre, cormorani, gallinelle, germani, cavalieri che popolano i fitti canneti del fiume, guardare le nuvole che con i loro riflessi cambiano i colori e le trasparenze delle acque, sentire sulla pelle il respiro delle montagne vicine. Diciamo che mi basta godere l'emozione di una o due abboccate di scardole o magari un persico per sentirmi appagato dal favore benevolo della divinità di quel fiume che, attraversato il lago, solca la Valtellina fino a Bormio e al lago di Cancano dal quale nasce sgorgando dalle rocce delle Alpi Retiche.
Ma tutto questo non c'è più o meglio non è più come allora. Innazitutto la strada. Percorrerla un tempo era bello, dal verde del Parco di Monza al colle di Merate e Calco punteggiato di ville e giardini, fino ad affacciarsi sulla valle dell'Adda e scendere a raggiungerne la sponda. Oggi la vecchia statale dello Spluga è diventata una bolgia di lamiere puzzolenti, sconciata e resa insostenibile dai megacamion a servizio del just in time che la riducono a magazzino mobile della fabbrichetta diffusa brianzola.
Finalmente sono arrivato al parcheggio dietro il ristorante Cantù, un tempo modesta trattoria dove a mezzogiorno, all'ombra fresca dei monumentali tigli che ornavano una meravigliosa terrazza affacciata su un'ansa del fiume, si potevano mangiare alborelle e triotti fritti, risottino ai filetti di pesce persico e coregoni alla brace. Nei pomeriggi estivi era frequentato dai pescatori che finita la pesca si riposavano bevendo birra e gazosa all'ombra dei tigli.
Oggi era la giornata di riposo, ma la vecchia trattoria si presentava irriconoscibile. La terrazza con i tigli e i tavolini di pietra è stata chiusa da una serranda di vetri, plastica e metallo e trasformata in una squallida sala da ristorante verandata, probabilmente per poter lavorare anche d'inverno e con il maltempo. Come se l'inverno e il maltempo li si potesse rimuovere e negare.
Mentre scendevo la scaletta che portava al fiume già il mio piacere si era guastato e la malinconia cominciava a ringhiare alle porte del cuore. Sulla riva però tutto sembrava rimasto come lo ricordavo: il grande sasso proteso sulla corrente dal quale un tempo lanciavo le mie esche era ancora lì e il fiume appariva come allora bellissimo. Girate le spalle all'orribile veranda, con gli occhi pieni di colori, le nari di profumi, le orecchie di suoni graditi e la pelle stuzzicata dalla Breva, ho montato i cagnotti sull'amo e lanciato la lenza, concentrandomi sui movimenti ipnotici del galleggiante.
Mi sono goduto due ore di assoluta e serena solitudine, immerso in quell'atmosfera, in attesa di un segno di riconoscimento del nume acquoreo, non dico un'abboccata, ma almento una toccata che facesse immergere il galleggiante. Niente. Ho lanciato a monte, a valle, ho cambiato la profondità dell'amo, rinnovato le esche, pasturato. Nessuna risposta. Il fiume scorreva senza curarsi di me. Va bene che ero molto arrugginito e l'uscita era improvvisata, ma insomma.. Comunque grato e rilassato verso mezzogiorno ho mollato la canna e tornato a casa ho fatto una ricerca su internet. E ho trovato la ragione del mio cestino vuoto. 
La relazione di una ricerca scientifica condotta sul tratto di fiume compreso tra la fine del lago di Olginate e Brivio spiegava che proprio quel pezzo di fiume, a causa dell'entrata in servizio a monte di alcuni impianti di depurazione degli scarichi urbani (che da 10 anni non vengono quasi più sversati nell'Adda) era diventato meno vitale. Insomma l'acqua era troppo pulita, buona quasi da bere, ma povera di nutrienti e dunque poco ospitale per i pinnuti. La catena alimentare del fiume in questi anni si è molto impoverita di qui la scarsa pescosità causata dallo spostamento dei pesci verso zone più ricche di fitoplancon e zooplancton, alghe, molluschi, crostacei e altri componenti del menù ittico e di conseguenza l'allarme lanciato dalle associazioni dei pescatori. Meno azoto e fosforo negli scarichi, meno alborelle e triotti fritti. Morale: chi non inquina non piglia pesci.
E' proprio vero, da vecchi non bisogna mai tornare dove si è stati felici da giovani.

4 commenti:

Martin P. ha detto...

Ciao Carlo.
Anche io andavo a pescare sull'Adda, ma non così a nord: le mie zone erano nel lodigiano, fino a Maleo e Bocca d'Adda. Oppure andavo sul Ticino, a Turbigo. Proprio a Turbigo, già una decina di anni fa, facevo la tua esperienza: l'acqua - bellissima - ma poi ... il nulla. In quel caso, però, il problema erano i cormorani ed i siluri. Gli uni e gli altri hanno spazzato via da ghiareti e buche sotto il ponte della ferrovia qualsiasi forma di pesce autoctona. E pensare che negli anni '90 con un pò di pane potevi catturare quello che volevi: mi è capitato spesso di avere i primi 10 pesci appartenenti a 10 specie differenti.
Ciao.

Anonimo ha detto...

Beh,quì non siamo più al giornalismo ma alla letteratura,scorgo un certo stile dannunziano,scrittore e poeta che andrebbe rivalutato.
ciao
pierino favrin

carlo arcari ha detto...

Grazie Favrin, ma non esageriamo con la letteratura..

carlo arcari ha detto...

Grazie Favrin, ma non esageriamo con la letteratura..