giovedì 3 giugno 2010

Le cose che siamo

E’ sempre pericoloso tornare nei luoghi dell’infanzia e scoprire che non sono cambiati. A 50 e più anni di distanza ci si aspetterebbe il contrario, ma quasi sempre la natura dei luoghi rimasti identici nonostante il passare del tempo, ha una sua forza invincibile. Negli anni 50, dai 7 agli 11 anni, ho vissuto con la mia famiglia alla periferia Nord della Bovisa. Abitavo in una casa che stava in una vietta sterrata vicino a una cascina cadente abitata da sfollati e a un campo Arar di residuati bellici. La via era intitolata a Simone Schiaffino, eroe garibaldino che si beccò la fucilata fatale trascinando l’incredibile contrattacco su per la salita di Calatafimi.  Un fegataccio.  Oggi sono tornato in via Schiaffino per un sopralluogo guidato dall’assessore milanese al Territorio, Carlo Masseroli, perché questa strada stretta di cui avevo un ricordo sbiadito di polveroso (d’estate) e fangoso (d’inverno) squallore, è la piccola vite del cardine sul quale ruota come un grande portale, il piano di riqualificazione del quartiere compreso tra la stazione Bovisa del Passante Ferroviario, il campus del Politecnico ricavato dagli edifici della ex Ceretti & Tanfani e da Piazzale Bausan alla massicciata ferroviaria che separa la Bovisa dalla antica frazione di San Mamete. Allo spigolo Nord Est del campus infatti, c’è uno dei suoi ingressi che si dovrebbe affacciare su un piazzale adeguato perché lì finisce l’edificio di un grande complesso terziario commerciale giallo, verde e viola, disegnato da un maestro dell’architettura italiana, Alessandro Mendini. Invece si affaccia su una stretta curva a gomito disegnata dalla via Schiaffino attorno a una brutta casa a corte di quattro piani. La mia vecchia casa che dopo 55 anni è ancora lì identica a come l’ho vista la prima volta.

Incongrua allora, incistata tra muri ciechi di fabbriconi, depositi di rottami metallici e balle di stracci, edifici agricoli diroccati. Incongrua oggi, corpo estraneo tra palazzi di prestigioso design, aule universitarie, colorati spazi commerciali e nuovi locali di tendenza. Abitata come allora da proletari, probabilmente immigrati, come allora, della cui presenza reca le stimmate sulla sua facciata, cioè l’eruzione cutanea delle parabole televisive.
Masseroli ce la mostrava, a me ed altri giornalisti ai quali descriveva le meraviglie del piano che il Comune e i costruttori stanno per realizzare dicendo: “Avete visto quello che sta nascendo qui e guardate cosa abbiamo tra i piedi. Queste sono le vere difficoltà” e probabilmente vagheggiava una ruspa enorme che in un attimo radeva al suolo la mia vecchia casa. Io non avrei niente in contrario s’intende; quella giallognola palazzina coagula i miei ricordi infantili di solitudine, paura, freddo e tristezza. Se venisse abbattuta ne sarei solo felice, ma è significativo scoprire che questo grumo di desolato squallore è ancora lì, intatto, nella sua originaria carica negativa. L’architetto Mendini ha intitolato la sua edizione del Museo del Design inaugurato da poco alla Triennale “Che cose siamo”. Forse ha ragione. Le cose, se non si buttano via in tempo, restano lì a perseguitarci e a ricordarci di cosa siamo fatti.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao Carlo.
C'è anche l'aspetto duale, rispetto a quello negativo che tu descrivi. C'è anche un aspetto positivo, almeno per quella che è stata la mia esperienza. Da ragazzo, le mie estati si svolgevano sulla sponda novarese del lago Maggiore, in un paesino nascosto dal colosso di S.Carlo Borromeo. Ogni tanto vi torno, specialmente d'autunno, a far castagne. Orbene, il campo di calcio su cui ho fatto innumerevoli tornei estivi è ancora là, con lo stesso muretto di contenimento ed il grande albero di lauro di allora. E' un caso in cui posso affermare che riesco a toccare i miei ricordi. E non è indifferente questa cosa, soprattutto nel mondo di oggi, che fagocita tutto nel tritacarne delle cose che cambiano alla velocità della luce e, dopo due giorni, sono già "vecchie". Ogni volta che mi fermo là, vedi sì qualcosa che non è più come allora, ovviamente, però è cambiata lentamente, a misura d'uomo. E questo mi dà pace, perchè mi permette di collegare direttamente ciò che è stato con ciò che è oggi. Ovviamente, in questo caso, è legato a qualcosa di lieto, però, comunque è legato a qualcosa di mio e lo sarà per sempre.
Ciao.
Ferr.