La porta dell'inferno è banale, come è giusto che sia.
Un'anonima apertura laterale ricavata nel terrapieno della Stazione Centrale di Milano, in via
Ferrante Aporti, in corrispondenza con la fine delle grandi gallerie che sovrastano i binari.
L'ingresso dà su un ambiente in
penombra, un tempo era il magazzino delle Regie Poste della
stazione dove venivano caricati e scaricati i vagoni merci con i
sacchi di corrispondenza spediti via ferrovia.
Da questo antro scuro, riparato dagli
sguardi dei cittadini milanesi, tra l'inverno del 1943 e l'aprile del
1945 centinaia di ebrei milanesi, uomini, donne, vecchi e bambini, e
rastrellati in città e nel territorio, partirono per il loro
ultimo viaggio verso i reticolati e le camere a gas di Auschwitz e
Bergen Belsen.
Oggi, questo luogo, unico teatro delle
deportazioni in Europa ad essere rimasto intatto, è diventato il
Memoriale della Shoah e la visita che ho fatto stamattina è
cominciata con una lunga coda, sorvegliata e scandita da un
efficiente servizio d'ordine, pantomima involontaria di uno dei
tragici rituali tipici delle ordinate operazioni di morte gestite
dalle SS.
Lasciata alle spalle la luce brillante
della stada, mi sono infilato nella penombra dell'atrio da dove nel
gennaio di 70 anni fa una ragazzina di 13 anni, Liliana Segre, partì
con suo padre verso la morte. Con lei partirono stipati nei carri
bestiame quella mattina, altri 605 ebrei. Ne tornarono vivi solo 22.
Dall'atrio del Memoriale, che è stato
inaugurato nel gennaio del 2013, si accede all'area dei binari dove i
deportati venivano caricati sui carri. E' stato mantenuto com'era con
l'installazione di quattro carri merci dell'epoca. In ogni carro (che
secondo l'uso serviva per trasportare 8 cavalli, venivano fatte
salire una settantina di persone. Il vagone veniva piombato e poi
sollevato fino all'altezza del terrapieno ferroviario con una sistema
di traslatori e montavagoni per essere agganciato alla mortice con
gli altri del convoglio. Entrare in uno di questo carri è
un'esperienza raggelante che vale più di mille parole.
Sono 15 i convogli carichi di ebrei e
deportati politici che da qui, da un binario senza nome tra il 18 e
il 19, partirono verso i lager. I nomi dei deportati sono proiettati
in lettere bianche sul muro scuro che fiancheggia la banchina di
carico. Ogni tanto tra questi spicca in lettere gialle il nome di un
superstite scampato all'orrore. Molto pochi.
Mi sono aggirato per un po' nella
galleria ricavata sulla lunga banchina, leggendo i cartelloni che
raccontavano le tappe di questa tragedia, le leggi razziali, la
discriminazione, i primi arresti dopo l'8 settembre, le grandi retate
dell'ottobre 1943 a Roma, Firenze, Genova, Bologna, Torino e Milano.
Poi non ce l'ho fatta più e sono uscito fuori da quel cupo cuore di
tenebra "a riveder le stelle".
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