sabato 2 aprile 2011

Crisi italiana: solo un New Deal ci salverà

Una destra che dopo aver promesso il buon governo presenta solo conti in rosso, aumento della spesa pubblica e delle tasse. Una sinistra che ha semplicemente dimenticato i poveri. Questo sintetico quanto severo scenario è quello che l’Unione di Centro ha presentato l’altra sera ai padernesi convenuti numerosi alla Villa Gargantini di Incirano per parlare di lavoro, giovani e occupazione. Problema ormai scontato nella sua drammatica attualità per fronteggiare il quale non ci sono ancora ricette credibili e tutti i partiti interrogati da questa urgenza sembrano non riuscire a far altro che, o negare la natura epocale della crisi, dando ad intendere che ne staremmo uscendo (le forze di governo) o denunciarne l’esistenza (l'opposizione), ma senza riuscire poi ad andare oltre la denuncia.
All’incontro organizzato dal Coordinatore dell’UDC, Dario Pirovano, hanno preso parte come relatori il consigliere regionale Enrico Marcora e il consigliere provinciale Alessandro Sancino. Marcora ,che essendo anche imprenditore edile sa di cosa parla quando discute di lavoro e di crisi, ha ricordato il carattere epocale e inedito di questa crisi, descrivendola con un’immagine forte ed evocativa: “Il mondo è diventato piatto”. La realtà globale oggi si caratterizza per l’assenza di barriere, fisiche, normative, spazio-temporali e culturali, condizione che non consente, come un tempo, la difesa di produzioni e competenze, professionalità, storie e patrimoni di esperienza che vengono aggirate e superate da potenza e velocità delle tecnologie della comunicazione. Sistemi informatici a basso costo che consentono a un’impresa mediopiccola di Forlì o di Vicenza di far reingegnerizzare o progettare ex novo un prodotto con relativo processo produttivo da uno studio tecnico indiano a Bangalore che, lavorando online e in condivisione con l’azienda italiana, riceve dati e restituisce nuovi progetti a un costo 4-5 volte inferiore a quello praticato in Europa e in Italia. E se questo avviene ormai al livello alto del mercato brainware figuriamoci cosa accade nel settore dei prodotti semplici e ad alta intensità di lavoro manuale come scarpe o vestiti, borse o dispositivi meccanici.

In sala c’erano ad ascoltarlo alcuni lavoratori e lavoratrici della Lares, la cui azienda è stata distrutta da manager incapaci e disonesti, i quali hanno ripetuto la loro storia: da anni chiedono di tornare a lavorare senza trovare risposta perché nessun imprenditore si fa avanti per rilevare un marchio famoso nel mondo che avrebbe ancora mercato nel settore dei componenti elettronici.
Che fare dunque? Difficile rispondere, anche per Marcora. Se sei un cinquantenne, anche molto qualificato, e perdi il lavoro, non rientri più perché il tuo posto l’hanno già dato a giovani precari, laureati e poliglotti, che accettano di lavorare alla metà dello stipendio e senza alcuna garanzia. In questi ultimi 20 anni, infatti, mentre il lavoro veniva delocalizzato nei Paesi dove si guadagna in media 3-4 dollari al giorno, in Italia il processo di sottoproletarizzazione dei figli del ceto medio è andato avanti come un rullo compressore spazzando via sacrifici, risorse e investimenti delle famiglie che oggi si ritrovano con figli che, se qualcosa non cambia in profondità nella nostra società, non potranno mai aspirare ad avere stabilità e sicurezze minimamente paragonabili a quelle dei loro genitori.
Io mi sono permesso di intervenire ricordando ai relatori che il problema da affrontare in questa partita estrema che ci tocca giocare è quella del modello di sviluppo. E’ ormai chiaro a tutti che il vecchio modello made in Italy è morto e sepolto e che per milioni di giovani italiani che non vogliono emigrare cercando all’estero la loro strada, il futuro è diventato, come diceva la canzone di Jannacci “un buco nero in fondo a un tram”. L’Italia è un punto di partenza solo per andare all’aeroporto a prendere un volo con destinazione Paesi emergenti o almeno Stati Uniti.
Dovere di noi cittadini, padri e figli, è chiedere oggi alla classe dirigente politica di dare nuove risposte, indicare futuri possibili e nuovi modelli di sviluppo alternativi a quelli che ormai non funzionano. Le eccellenze delle nostre straordinarie piccole imprese non bastano più, purtroppo, a dar da mangiare a 60 milioni di italiani. Scarpe, borse e vestiti non bastano. Accanto a queste imprese devono riprendere a giocare con un ruolo trainante di guida e di sostegno, nuovi soggetti industriali, scientifici e tecnologici pubblici, in grado di realizzare, nuovi prodotti frutto di mirati investimenti statali in ricerca, mirati a far riguadagnare alle imprese italiane le posizioni di leadership nei settori trainanti dell’industria moderna che sono poi sempre quelli: scienza dei materiali, microelettronica, informatica, meccatronica, bioingegneria, agrochimica, aerospaziale, energia. Mica moda o arredamento, piastrelle e occhiali.
Per far questo bisogna avere il coraggio di rimettere al centro del dibattito il modello delle partecipazioni statali che ha consentito al nostro Paese dalla ricostruzione post bellica fino ai primi anni 70 di traghettare l’Italia nel club delle grandi potenze economiche mondiali. Ancora oggi se l’Italia costruisce treni superveloci e metropolitane di ultima generazione, come quella di Copenhagen, aerei ed elicotteri, satelliti, è perché esiste, e i cittadini lo ignorano, un’azienda a controllo statale che si chiama Finmeccanica in cui ancora resiste il meglio dell’industria pubblica che faceva capo all'IRI. Quando si è liquidato il grande patrimonio industriale e tecnologico di quel sistema si è commesso un grave errore: con l’acqua sporca della cattiva gestione politica si è gettato via anche il bambino.
Oggi gli amministratori di destra quando i lavoratori vanno a bussare alla loro porta chiedendo lavoro dicono che non è loro compito di “fare impresa”. Ma è una posizione solo apparentemente corretta. In realtà è insostenibile perché se non ci sono più imprenditori disponibili a impegnarsi sul fronte dell’innovazione o lo fa l’ente pubblico o non lo fa nessuno e senza la nuova economia generata da un New Deal, che non sostenga il mercato come si è fatto finora, ma il lavoro e l’impresa, questo Paese muore. Ci seppelliranno elegantemente vestiti, in belle bare di raffinato design, ma morti stecchiti.

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