Ho seguito con attenzione l’esposizione delle determinazioni sul Piano Casa che ha fatto il vicesindaco Bogani mercoledì scorso in Consiglio Comunale. Mi ha colpito in particolare l’immagine della famiglia e della villetta espressa in quella occasione. Il massimo dei benefici concessi dalla legge regionale vengono indirizzati alle famiglie proprietarie di una villetta o di una palazzina bifamigliare per dare a queste la possibilità di allargare di un terzo la loro proprietà: “per costruire un alloggio destinato ai figli in modo che questi possano rimanere a vivere vicini ai genitori”.
Non ho potuto fare a meno di ripensare alla mia giovinezza e alle idee lontane anni luce da questa che allora i giovani della mia generazione esprimevano. Il nostro obiettivo fondamentale e urgente si concretizzava nella parola “libertà” che voleva dire sostanzialmente emancipazione, autonomia dalla famiglia, dalle sue aspettative, dai suoi progetti su di noi, dalla sua visione della società e del futuro.
Volevamo, infatti, costruirci da soli il nostro futuro, elaborare noi le nostre visioni, perché le nostre aspettative non coincidevano quasi mai con quelle dei nostri genitori. Andarsene di casa subito dopo la maggiore età, trovare un lavoro il più possibile aderente alle proprie inclinazioni e passioni, mettere sù casa con amici o con una giovane compagna (che diventava spesso una moglie), era assolutamente normale e apprezzato dalla società giovanile che allora si dichiarava alternativa a quella dei cosiddetti adulti. Il “pezzo di carta” che ti dava diritto a posto fisso non era più il traguardo. Nel film “Il sorpasso” cult mouvie degli anni 60, c’è una scena in cui il cugino avvocato dice al giovane Trintignant, studente di Legge : “Tu fai come me, ti laurei, apri un bello studio legale, ti sposi una brava ragazza e te ne freghi”. Era questa visione, che rispecchiava l’ideale delle famiglie di allora, che noi rifiutavamo in toto. Figli di avvocati, di commercialisti, di notai, di imprenditori, di commercianti, di artigiani, che facevano lo stesso lavoro, la stessa vita nello stesso luogo dei loro genitori. Una società immobile, legata alle stesse cose e allo stesso ambiente, alle stesse case, alle stesse città, persone, abitudini, idee, nei secoli dei secoli. Non ci piaceva. Noi sognavamo una società aperta e dinamica, dove nessuno si aspettava di dover restare fermo, a fare una vita identica o molto simile a quella di suo padre e suo nonno. Guardavamo alla swinging London dove si inventavano la minigonna e la moda optical, alla Amsterdam del provos e delle comuni, alla Parigi dove il maggio francese si stava preparando ad esplodere, alla San Francisco di “Fragole e sangue”. Cantavamo “California dreaming” nella versione italiana dei Dik Dik e la sognavamo. La villetta dove convivere con i genitori non era assolutamente la nostra prospettiva.
Oggi l’Italia è un Paese immensamente più provinciale e piccino, chiuso e immobile di quello che era 45 anni fa. Non c’è da stupirsi se siamo diventati più lenti, più arretrati, meno innovatori e più familisti. Bogani è convinto, probabilmente con ragione, che la maggior parte dei giovani nel 2009 è contento di vivere all’ombra dei genitori sfruttandone il più possibile la valenza economica in termini patrimoniali e di servizio. Mi domando: è la crisi italiana che li costringe a questo o è proprio la loro debole pulsione all’autonomia e al dinamismo sociale, una delle cause profonde della crisi italiana?
2 commenti:
Carissimo Carlo, condivido pienamento quello che hai scritto. Siamo nel terzo millenio e vogliamo ancora tenere i nostri figli nella bambagia, averli per tutta la vita a tre metri di distanza e magari gli diamo anche il biberon fino a 40 e passa anni. Caro Bogani, ma in che mondo vivi, non siamo più al tempo delle tribù, dove chi era nato in quel posto li ci moriva. Vogliamo fare la tribù di via XXV Aprile, quella di via Argentina ecc.ecc. I figli appena possono, pittosto prima che poi devono andare a farsi la loro vita non attaccati alla gonna della mamma o ai pantaloni del papà, ma crearsi la loro di famiglia, anche di fatto. Adriano Tominetti
Magari, caro Adriano ..... : in fondo quelli come noi sperano che la tua affermazione finale rispecchi la realtà. Ma mi sembra di capire, purtroppo, che rappresenta una minoranza !
A Carlo dico : sottoscrivo ciò che hai scritto ma .... se guardi poco più in alto, trovi l'articolo di Isabella che ci dimostra come l'allacciare le stringhe e togliere la maglietta al/la figlio/a e portargli la cartella fino a 30 anni, è il principio corrispondente al voler far vivere il figlio accanto a sé fino alla morte. Dimostra l'incapacità di alcuni genitori di accettare il proprio invecchiamento, il mutare del proprio ruolo, il rifiutare di non essere più "utili ed indispensabili" all'oggetto che spesso hanno chiamato figlio ma che assomiglia troppo ad un "tamagoci" vivente (non so come si scrive perchè non ne ho mai avuto bisogno, per fortuna !!!!)
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