Forse pensando alla lotta impari tra i
cittadini padernesi e il fantasma della Rho-Monza a 14 corsie ho
deciso di riprendere in mano Moby Dick. Un capolavoro immortale della
letteratura mondiale di cui ho posseduto 20 anni fa e letto una copia stampata dall'editore Frassinelli, tradotta da Cesare Pavese, copia che poi ho
perduto, regalato, prestato, non ho più.
Quello che sto rileggendo è
un'edizione di Orsa Maggiore del novembre 1995 tradotta da Lucilio
Santoni. Rileggendo il libro che Herman Melville, rampollo della
buona aristocrazia democratica americana, ha scritto in un solo anno,
dal 1850 al 1851, mi ritrovo a considerarlo sotto un punto di vista
nuovo, cioè come uno straordinario manuale di scrittura.
Il libro infatti che ha come
protagonista una terrificante balena inizia con ben 15 pagine di
"Etimologia (fornita da uno smunto assistente ginnasiale ormai
morto)". Come si scrive il nome "balena" nelle lingue
antiche e moderne dei popoli cacciatori di cetacei (italiano escluso
dunque)?
E giù una fila di nomi che partendo
dall'ebraico ךןך
e passando da greco e latino, cita anglosassone, danese
olandese, svedese, islandese, inglese, francese, spagnolo, figiano,
erromanghese, arricchita dagli "Estratti (forniti da un vice
vice bibliotecario)" che per metterli insieme ha "passato
in rivista tutte le sterminate Vaticane e bancarelle del mondo
raccogliendo qualsiasi casuale allusione alle balene".
L'inizio del libro pertanto non poteva
che essere la seguente citazione: "E Dio creò grandi balene"
Genesi. Insomma, prima di arrischiarsi a scrivere la sua
storia un aspirante autore deve documentarsi, passare in rassegna
"sterminate bancarelle e Vaticane", cioè le grandi
biblioteche, ma anche le più infime librerie e banchi di libri usati
alla ricerca di notizie e parole scritte sull'argomento di cui egli
intende narrare partendo dal libro dei libri, la Bibbia. Fatto questo
bisogna descrivere correttamente il protagonista, l'io narrante del
romanzo cominciando dal nome "Chiamatemi Ismaele", i motivi
che l'hanno spinto a iniziare il suo viaggio e il luogo di partenza
(la Battery dell'isola di Manhattan), il momento storico (Grande
campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, Sanguinosa
battaglia in Afghanistan, sembra incredibile, ma c'è scritto questo
nel libro), le tappe intermedie (New Bedford) e la presa di contatto
con i compagni di avventura (il selvaggio ramponiere, Quiqueg). Dopo
una breve digressione sulla cucina (le due pentole di arselle e
merluzzo) e una descrizione dell'isola di Nantuket e dei suoi
abitanti, un trattato di cetologia con l'elencazione dei vari tipi di
balena e una dissertazione sulla natura della stessa (pesce o
mammifero?), si entra nel merito della divisione dei ricavi del
viaggio tra l'equipaggio della nave Pequod e del valore del business
della baleneria, quante navi, quanti marinai, quanti barili d'olio
spillati, quante balene uccise. Infine si giunge alla descrizione dei
protagonisti principali del racconto Achab, suoi ufficiali e i
ramponieri. Fino a pagina 200 non si entra nel vivo del racconto, ma
questa lunga premessa è godibilissima e cattura l'attenzione del
lettore trasportandolo come una corrente di marea, onda du onda,
verso il bordo del gorgo oscuro che inghiottirà il folle capitano
Achab deciso a sfidare con la sua volontà di potenza offesa le forze
della Natura, l'intera nave e tutto il suo equipaggio. Meno il
narratore, Ismaele, che come Giobbe può affermare, galleggiando sui
flutti, aggrappato a una bara-salvagente, " io solo sono
scampato per raccontartela", in attesa che la bordeggiante
Rachela, tornando nella sua scia, alla "ricerca dei figli
perduti trovò solo un altro orfano".
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